Problem setting: i problemi sono tuoi amici!

Immagine originale tratta da Fotolia
Tempo stimato di lettura: 7 minuti, 18 secondi
Pubblicato il 28 Maggio 2015

Quando c’è un problema cosa dobbiamo fare?
Analizzare la situazione, identificare il problema e definirlo in tutti i suoi aspetti. È quest’ultimo concetto la base del problem setting.
Nel suo The psychology of the inventor Joseph Rossman ci dice che quando siamo davanti a un problema dobbiamo

  • osservare le difficoltà
  • formulare il problema (problem setting)
  • rivedere le informazioni disponibili
  • formulare le soluzioni possibili
  • esaminarle
  • pensare a nuove idee
  • sperimentare e accettare la soluzione.

Noi umani siamo in grado di risolvere un problema proprio perché siamo capaci di procedere attraverso questo percorso. Possiamo farci delle domande e creare risposte che non abbiamo mai incontrato. Abbiamo il potere di andare oltre. E allora perché non sfruttarlo? Vediamo insieme alcuni consigli e scopriamo perché i problemi possono essere nostri amici.

Il momento giusto per farsi delle domande.

Mi dispiace deludere chi è convinto che una soluzione valga per sempre. Il problema può mutare nel tempo, oppure possono cambiare situazioni, persone, metodi di lavoro e altro.
Ciò che conta, dunque, è innanzitutto definire il problema. Per farlo devi porti le domande giuste (nel paragrafo successivo approfondisco l’argomento).
Quand’è il momento giusto per iniziare?
Se ti trovi in difficoltà, il problema è già sbocciato come un fiore a primavera, dunque è già tardi e trovare una soluzione comporterà qualche sacrificio (costi, tempo, reputazione, ecc.).

“Prima del problema c’è la percezione di un disagio, di una carenza. C’è un bisogno da soddisfare. C’è uno stato ansioso di fronte a minacce indefinite”, sottolinea Umberto Santucci.

Al primo segno d’allarme il primo passo da compiere è analizzare la situazione, le cause del disagio, capire qual è il bisogno e realizzare così il problem setting, la definizione del problema.
Ancora Santucci ci consiglia cosa potremmo indagare:

  • lo scenario (quel che ci circonda)
  • il contesto strategico (dove lavoriamo)
  • il soggetto per cui lavoriamo (l’azienda, il brand, noi stessi, ecc.)
  • il settore di nostra competenza
  • l’argomento di cui tratta il problema in questione.

N.B. Definisci il problema all’inizio, non durante il processo di ricerca della soluzione. Ottimizzerai così il tempo e il tuo lavoro sarà più semplice.

Farsi le domande giuste. Quali?

Farci troppe domande ci porterà certo a confonderci, ma qualcuna dobbiamo pur farcene per rappresentare un problema, giusto?
Iniziamo bene. Scherzi a parte, voglio soffermarmi ad analizzare con te l’importanza di porsi quesiti per arrivare a un determinato obiettivo. Quelli giusti, ovviamente.
Ricorro dunque all’aiuto di Annamaria Testa, che nel suo NuovoeUtile ci spiega perché bisogna farsi domande. Ti invito a leggere il post, ma nel frattempo riassumo la parte che a mio parere centra il nostro argomento.

“Avete notato che un punto interrogativo a testa in giù somiglia a un amo? Bene: buttatelo nel mare del possibile, e vedrete che qualcosa di interessante ci resterà attaccato.” (A. Testa)

Per non confonderci e perderci nell’infinito della nostra mente, poniamoci le domande corrette. Annamaria Testa ce le suggerisce:

  • le ingenue sono le 5 W che tutti conosciamo
  • le paradossali ci fanno osservare il mondo da un’altra prospettiva (se fossi una mela?)
  • le ossessive non ci devono spaventare, ma spingerci a trovare una risposta (posso fare meglio?)
  • le metodologiche ci indicano un metodo e una via (qual è il mio obiettivo?)
  • le oniriche ci fanno sognare possibili soluzioni (a volte chi dorme riesce a pigliar pesci!)
  • quelle degli altri ci possono aiutare laddove abbiamo esaurito le nostre.

Fatti domande che si concentrano sul problema e su ciò che può aiutarti a risolverlo, dunque

  • non divagare
  • non farle per pavoneggiarti
  • non perdere tempo in congetture.

I problemi possono aiutarci. Poniamoceli! Con metodo.

Ognuno può avere il proprio metodo per definire un problema: c’è chi si basa sulle intuizioni improvvise, chi esamina con attenzione ogni dettaglio, chi si fa ispirare da casi precedenti.
Il problem setting, però, è fondato su pilastri che devi stabilire dall’inizio: l’obiettivo che vuoi raggiungere e le informazioni che hai a disposizione per poter agire e risolvere. Quando elabori queste informazioni per arrivare all’obiettivo hai messo in pratica il problem solving.
Perché è importante porci subito il problema? Semplice: perché è più facile risolverlo quando è appena sorto e non quando ha già invaso uno spazio troppo vasto. Di fronte a un leone affamato a 100 metri di distanza, attenderesti che i metri si riducano a 10 o torneresti in macchina, ingranando la quinta?
Spesso accade che quando abbiamo definito un problema, la situazione è già variata e pronta per mostrare altri quesiti. Trovare il metodo giusto per realizzare un problem setting efficace e tempestivo è importante: allenati ogni giorno, trova anche le occasioni quotidiane più banali per farlo e costruisci il tuo metodo, senza timore di doverlo cambiare nel tempo.

Il metodo dei sei cappelli.

Sei cappelli per pensare è il libro di Edward De Bono in cui l’autore teorizza un metodo per fronteggiare un problema.
Ad esempio, puoi organizzare una riunione sulla base di questa teoria e seguire i passaggi attraverso i colori.
È sufficiente indossare un cappello, infatti, per cambiare un atteggiamento remissivo e pessimista. O meglio, 6!

  • Bianco: raccolta e analisi di dati e informazioni senza giudicare.
  • Rosso: emotività, spontaneità.
  • Nero: indagine sugli aspetti negativi.
  • Giallo: ricerca degli elementi positivi, opportunità.
  • Verde: creatività, punti di vista diversi, proposte.
  • Blu: organizzazione, regole, priorità.

Si parte da un argomento, il coordinatore controlla che tutti rispettino l’atteggiamento del cappello indossato e si prosegue con la discussione. La riunione finisce quando i risultati ottenuti rappresentano soluzioni efficaci al problema.

Problemi? Aiuta il cliente a definirli.

Se ti attivi per una nuova comunicazione, per creare una pubblicità, per variare modalità di promozione, ecc. un problema c’è. Nessun allarme: il problema può anche essere identificato con una lacuna, con una situazione buona ma che potrebbe essere migliorata, con un cambiamento, ecc.
Qual è, allora, il primo passo da compiere?
Trovato il problema (problem finding), devi rappresentarlo.
Certo non è semplice, e soprattutto non lo è adattare la propria mente all’esigenza.
Mi spiego: quante volte ti sei trovato di fronte a un cliente che non sa proprio da che parte iniziare e che, soprattutto, non riconosce un problema?
Durante l’incontro con il cliente è indispensabile arrivare alla percezione di qualcosa che non va o che si deve migliorare. Di seguito potete insieme cercare di delineare il problema.
Ecco che il problem setting si può riassumere con alcune domande che il cliente dovrebbe farsi:

  • cosa devo cambiare o migliorare?
  • quali obiettivi potrei raggiungere se risolvessi quel problema?
  • di cosa dispongo per farlo?
  • quale mezzo posso usare?
  • qual è il mio budget?
  • quanto tempo ho?
  • quanti tentativi posso fare?
  • quali mie capacità posso sfruttare?
  • con chi potrei collaborare?
  • in che modo riesco a ottenere ciò che voglio con il minor sforzo?

(Ricordati le cinque W: sono da sempre un valido aiuto per definire i dettagli di un caso).
Spesso il cliente non riesce da solo a individuare e configurare il problema: per questo è necessario l’intervento di un professionista, che attraverso un’attenta analisi del materiale e della situazione, oltre che con il dialogo, mette a disposizione il suo supporto per trovare il percorso e la soluzione più adatti.

Il dialogo strategico di Giorgio Nardone.

“Giorgio Nardone ha formulato insieme ai suoi collaboratori una tecnica per condurre un colloquio mediante il quale l’interlocutore o il paziente finisce per cambiare le proprie convinzioni più radicate. La validità del dialogo strategico risiede nel fatto che questo cambiamento non è avvertito come un’imposizione esterna, ma come il naturale scioglimento del nodo che crea il disagio e il malessere.” (Il dialogo strategico)

Questo strumento è utilizzato dal professionista per indurre il cliente a dire quel che è necessario conoscere, individuare insieme il problema, rappresentarlo e trovare le possibili soluzioni.
Umberto Santucci ci propone un esempio di dialogo strategico:

  • C’è un problema da risolvere o un obiettivo da raggiungere?
  • Un problema da risolvere.
  • È un problema di organizzazione o di comunicazione?
  • Di comunicazione.
  • Comunicazione all’interno della sua azienda, o all’esterno?
  • All’esterno.
  • Bene, lei mi sta dicendo che vorrebbe risolvere un problema di comunicazione esterna.
  • Proprio così (il cliente accetta la nostra riformulazione).
  • Il problema esiste quando comunica con i clienti o con il trade?
  • Mah, piuttosto con il trade.
  • Perché è poco incentivato o perché non è soddisfatto della consegna degli ordini?
  • In genere si lamenta per ordini che arrivano in ritardo.
  • Allora vediamo se ho capito bene. Lei mi dice che non riuscite a comunicare bene con il trade, perché è insoddisfatto della vostra distribuzione.
  • Sì, diciamo che è così (ogni volta che il cliente accetta la riformulazione, possiamo procedere).

L’incontro con il cliente è importante non solo per comprendere l’esistenza di un problema e individuare di cosa si tratta, ma anche per semplificare tutto il lavoro che segue. Per costruire una casa stabile si parte dalla fondazione, concordi?

E tu come rappresenti e affronti i problemi? Scrivici nei commenti!

Shares