Editoria online: tre motivi per cui il paywall è inevitabile

Tempo stimato di lettura: 4 minuti, 16 secondi
Pubblicato il 8 Aprile 2013

Alzi la mano chi non passa una fetta importante del proprio tempo su Internet a leggere notizie o articoli vari di approfondimento giornalistico. È un’attività oramai entrata nella quotidianità della maggioranza, e alla quale sarebbe onestamente difficile rinunciare. Sareste però disposti a pagare?

Ammettiamolo: i giornali ci hanno abituato male. Presi tutti dall’entusiasmo per la novità del Web, hanno iniziato fin dai primordi (in Italia dal 1994 con l’Unione Sarda e l’Unità) a caricare contenuti gratuiti online, in principio si trattava della versione digitale del giornale, negli anni si è trasformato in una vera e propria webzine, con redazione “ad hoc” e contenuti solo in parte condivisi con la versione cartacea. Sempre tutto gratuito.

Pionierismo? Forse, ma in Italia si trattava anche di tentativi d’intercettare un target di lettori (i giovani) che non avevano alcuna confidenza con la versione tradizionale dei quotidiani. Man mano che la diffusione dei new media s’allargava a dimensioni popolari, la media dei lettori delle versioni online aumentava e aumenta tuttora vertiginosamente. Ma i ricavi?

Tempi bui, per il giornalismo. La rivoluzione di Internet non ha soltanto cambiato radicalmente le carte in tavola sul modo di fare informazione, ma ha anche messo in crisi il sistema di monetizzazione che da almeno un secolo sovvenzionava la carta stampata: la pubblicità.

Un modello che poteva andar bene offline, infatti, non è più così efficace sul Web, e sta portando gli editori al collasso per una serie di ragioni che vi illustro in questo post.

Si vendono sempre meno giornali

È un dato incontrovertibile: l’editoria cartacea è in continuo calo. Si tratta di un trend fisiologico, figlio dell’era della dematerializzazione.

I numeri mostrati nei report di State of the Media sono piuttosto eloquenti, e anche visivamente evidenziano una discesa senza fine.

In Italia il calo delle vendite è ancor più accentuato, come potete rilevare dai rapporti della FIEG. Non siamo mai stati un popolo d’assidui lettori, e l’alternativa gratuita di siti e blog d’informazione ha dato quello che sembra il colpo di grazia all’editoria cartacea. D’altronde, perché aspettare il giorno dopo per sviscerare fatti e notizie che ormai si commentano nella mezzora immediatamente successiva all’accadimento?

La non-competitività del modello CPM

Comprare una pagina di un giornale è una pratica diffusa per qualsiasi azienda che desideri “spingere” una campagna marketing verso un determinato target di lettori. La tariffazione viene fissata dal numero di copie vendute dal giornale, secondo un modello chiamato CPM (Cost Per thousand Impression, costo per mille impressioni): l’inserzionista sa quanto paga, ma non ha strumenti certi per tracciare quanto business o ritorno d’immagine quella pubblicità gli ha veicolato. Un investimento oneroso (60 dollari x CPM, in media), senza ROI assicurato.

Gli editori hanno trasportato questo modello anche su Internet, dove la situazione è assai diversa: chiunque è in grado di monitorare ogni singola visita, click o conversione che gli viene veicolata da un dato canale. E’ piuttosto semplice per gli inserzionisti capire se una campagna web sta funzionando o meno.

Usare la tariffazione CPM sul Web significa automaticamente applicare dei costi sopra la media, perché i giornali online possono vantare un numero d’impression fisiologicamente elevato. Stiamo parlando quindi di CPM che attualmente si stabilizza vicino ai 7 dollari, una cifra decisamente più alta delle medie di Google, Yahoo! e compagnia che, con le rispettive piattaforme di advertising, viaggiano tra i 2 e i 3 dollari. Un dato in forte decrescita, complice la concorrenza e la necessità di aggiudicarsi spazi di visibilità strategici. Oltretutto il trend globale è quello di premiare una forma di remunerazione pay-per-click se non pay-per-lead oppure pay-per-sale, e in questo caso un sito d’informazione ha una minor possibilità di profilare gli utenti che veicola verso le pubblicità, col rischio di non garantire il risultato auspicato dall’inserzionista.

Online non basta

Ciononostante, la crescita dell’online advertising come voce di ricavo per i giornali è un fatto reale ma non confortante, perché è assolutamente insufficiente a controbilanciare il calo sulla carta stampata. Il punto è che stiamo parlando di ordini di grandezza assai differenti (un rapporto di 1 a 10 come le tariffazioni CPM suggerivano), che il seguente istogramma ben descrive.

Paywall, unica via

I giornali rischiano la sopravvivenza in questa maniera, in Italia mantengono a fatica le loro strutture grazie alle sovvenzioni statali, ma la situazione globale è comunque di estremo precariato o di paghe bassissime per i giornalisti, prime vittime sacrificali dei necessari tagli di budget.

La più efficace soluzione finora adottata negli States è stata l’introduzione del cosiddetto paywall: si tratta di una forma d’abbonamento meno “castrante” di quelle tipiche del Web anni Novanta, che concede al lettore la fruizione di un numero mensile di contenuti del giornale online (di solito una ventina di articoli), introducendo il pagamento di un canone al superamento della soglia.

Una formula applicata con successo al New York Times, e che sta per essere adottata anche in un’altra celebre testata a stelle e strisce, il Washington Post.

E da noi? I primi timidi tentativi di Gazzetta, Repubblica o Corriere si tramuteranno in una formula sistematica? Oppure l’abitudine al contenuto gratuito ha minato per sempre il già immaturo approccio del nostro Paese al Web?

Shares